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Di modesti natali (figlio di un allevatore, Placido Capizzi), rimase presto orfano di padre. Fin dall'età di 11 anni, frequentò nella sua Bronte l'oratorio San Filippo, per poi spostarsi a Caltagirone (dove rimase tre anni) ed in seguito a Lipari. Nel 1732 si trasferì a Palermo dove, due anni dopo, si avvicinò alla medicina, scienza in cui si dimostrò molto abile nonostante la sua vera vocazione fosse quella religiosa. Così, poco tempo dopo, abbandonò gli studi scientifici per abbracciare quelli teologici che si conclusero nel 1735 quando conseguì la laurea in teologia al Collegio Massimo di Palermo. Seguirono poi, alla fine dello stesso anno, la nomina a diacono e il 26 maggio 1736, all'età di 28 anni, l'ordinazione sacerdotale. Per dieci anni risiedette nella Parrocchia dell'Albergheria di Palermo, dove si dedicò con fervente passione ad opere socialmente e moralmente utili nei confronti dei ceti più disagiati. Le sue opere di bene fissarono indissolubilmente la sua figura nell'immaginario collettivo siciliano, che ancora oggi fatica a dimenticarsene. Papa Pio IX, grande estimatore di Capizzi: nel 1858 lo dichiarò venerabile Negli anni seguenti proseguì la sua opera dedicandosi, in particolare, alla costruzione e all'ampliamento di nuovi istituti e collegi nel territorio palermitano. Nel 1747 fondò il Collegio delle Vergini di Santa Maria del Carmine, che diresse per i successivi cinque anni, fondandone nel contempo un altro simile nella vicina Vicari. Dal 1759 al 1766 fu invece direttore del Collegio di Maria della Sapienza alla Magione, che ampliò e restaurò. Si stabilì poi nel 1769 nell'Oratorio dei Filippini dell'Olivella, dove trascorse gli ultimi tredici anni della sua virtuosa vita. Durante questo periodò pubblicò numerosi saggi e trattati, dimostrando le sue grandi doti di teologo e di scrittore. La sua ultima impresa, fu la tanto desiderata costruzione di un Collegio cattolico nella sua città natìa, Bronte. La costruzione durò quattro anni, dal 1774 al 1778, quando i lavori furono ultimati. Il complesso divenne negli anni a seguire uno dei principali centri culturali dell'isola, con la nomina a Real Collegio Borbonico. Oggi l'istituto, il Collegio Capizzi, ospita un liceo classico, un istituto magistrale, una nutrita pinacoteca ed anche una ricchissima biblioteca. Ignazio Capizzi morì nell'Oratorio dei Filippini dell'Olivella a Palermo il 27 settembre 1783, dove fu sepolto. Due secoli dopo la morte, il suo corpo fu traslato a Bronte, dove dal 17 aprile 1994 riposa nel suo Collegio, nella Chiesa del Sacro Cuore. Il processo di beatificazione di Capizzi iniziò nel 1793 a Palermo ed a Bronte. Per le sue virtù teologali e per la sua fervente attività sociale ed apostolica, il 27 maggio 1858 Papa Pio IX lo dichiarò Venerabile. Lo stesso pontefice lo definì "il San Filippo Neri della Sicilia". È tuttora in corso il processo per la sua beatificazione.
Nicola Spedalieri, nato da Vincenzo e da Antonina Dinaro, studiò nell'Oratorio di S. Filippo Neri di Bronte e dal 1751 nel seminario di Monreale dove, dopo l'ordinazione sacerdotale, dal 1765 insegnò filosofia, teologia e matematica. Alcune sue tesi teologiche, considerate eretiche a Palermo, furono invece approvate e stampate nel 1772 a Roma con il titolo di Propositionum theologicarum specimen. Trasferitosi a Roma, nel 1774 entrò a par parte dell'Arcadia con il nome di Melanzio Alcioneo. Papa Pio VI gli diede il titolo di beneficiato della basilica vaticana - che comportava una modesta rendita mensile - e l'incaricò di scrivere la storia del prosciugamento dell'Agro pontino, che uscì soltanto nel 1800 col titolo De' Bonificamenti delle terre pontine. Nel 1778, contro l'Enciclopedia degli illuministi francesi, uscì la sua Analisi dell'Esame critico del signor Nicola Frèret sulle prove del cristianesimo e nel 1779 il Ragionamento sopra l'arte di governare e il Ragionamento sulla influenza della religione cristiana nella società civile. Nel 1784 scrisse la Confutazione dell'esame critico del cristianesimo fatto dal signor Eduardo Gibbon, contro la famosa opera del Gibbon sulla storia dell'Impero romano, la cui caduta veniva imputata dallo storico inglese all'influenza negativa della religione cristiana. Dei diritti dell'uomo libri VI[modifica | modifica wikitesto] Busto di Spedalieri nella Biblioteca Nazionale di Roma Nell'opera più importante Dei diritti dell'uomo, stampata nel 1791 e pubblicata a Roma ma, per volontà del papa, con la falsa indicazione di Assisi, Spedalieri si rifece alle concezioni rousseauiane relativamente alla dottrina del contratto sociale come origine della società, ma contestandone la tesi di un originario stato di natura a cui occorrerebbe tornare, perché soltanto all'interno della società civile l'uomo può realizzare i suoi bisogni di felicità e di perfezione. Scrive infatti che «Lo stato, a cui è destinato l'uomo dalla natura, è la Società Civile: ciò fu dimostrato; e vuol dire, che l'uomo non può rinunziare, generalmente parlando, alla Società Civile senza opporsi alla sua propria natura. È parte essenziale della costituzione sociale il Principato [...] il Popolo non ha diritto di disfare il Principato». Se la forma migliore di governo è, secondo lo Spedalieri, il principato, e al principe il popolo affida «le tre facoltà di giudicare, di decretare e di eseguire», il popolo non può togliergli «il Principato a suo beneplacito, cioè quando gli pare, per motivi leggieri, senza motivi», perché violerebbe il patto sottoscritto, a meno che il principe non violi la condizione essenziale del contratto stipulato, il do ut facies, a meno che egli non faccia ciò che si era impegnato a fare in cambio della proprietà del principato: ossia, custodire «i diritti naturali di ciascuno» e dirigere «tutte le operazioni del Principato alla felicità de' sudditi». Questa è la base del contratto, e se invece il principe «prendesse a distruggere i diritti naturali di ognuno, a sostituire il capriccio alle leggi, e ad immergere nella miseria i poveri sudditi, il contratto resterebbe sciolto da sé». Lo scioglimento del contratto non significa che il popolo eserciti per proprio conto il governo, ma che debba «investirne un altro con auspici migliori». Ma chi deciderà che il contratto stabilito con il principe sia nullo? Intanto, osserva Spedalieri, che «il contratto siasi sciolto già da sé stesso, si dee legalmente dichiarare. Prima della quale dichiarazione a niuno è permesso di sottrarsi dall'ubbidienza del Principe. E il diritto di far tale dichiarazione non appartiene a verun privato, né alla unione di alcuni, né anco alla moltitudine». Solo un corpo che rappresenti tutti i sudditi può dichiarare lo scioglimento del patto con il principe: questo «vero corpo» sarà formato da «tutti i Magistrati, tutti gli Ordini de' Cittadini, le persone illuminate, probe, e non soggette all'impeto del momento [...] ogni colta Nazione nella Costituzione fondamentale, che dà a sé stessa, e che inerisce nel contratto che fa con la persona che vuole innalzare al Principato, e che questa giura di mantenere, sempre, forma un corpo o sia un Collegio, per così dire, immortale, che rappresenti permanentemente tutti gl'individui. Laonde basta che la dichiarazione si faccia da questo corpo, per esser legale». Pietro Tamburini Qualora il principe resista e voglia mantenere il potere non più riconosciutogli, comportandosi così da tiranno, il «Corpo della Nazione» - mai però un singolo cittadino - potrà legittimamente giungere fino all'estrema soluzione di condannarlo a morte. Spedalieri si mostrò avverso sia al dispotismo illuminato, che rifiutava tanto il principio della sovranità popolare quanto il primato della religione nel governo dello Stato, sia i princìpi laici della Rivoluzione francese. La garanzia di assicurare i diritti fondamentali dell'uomo è data, secondo lo Spedalieri, dalla religione cristiana che ha come princìpi essenziali l'amore e la carità verso il prossimo. Spedalieri polemizzò anche contro i giansenisti che accusò di "giacobinismo" e di "spirito sovvertitore dei troni"[1]. Gli rispose con asprezza il teologo e giurista Pietro Tamburini nello scritto Lettere teologico politiche sulla presente situazione delle cose ecclesiastiche[2]. Il riconoscimento che la sovranità derivi dal popolo e che questi, attraverso i suoi delegati, possa giungere a rovesciarne il potere, procurarono allo Spedalieri violente critiche e inimicizie da parte dei circoli reazionari e in parte anche moderati, e al libro, che ebbe alla sua uscita una notevole diffusione, il divieto di pubblicazione in tutta Europa; soltanto nella seconda metà dell'Ottocento esso poté nuovamente circolare, anche se in Italia, mutato il clima politico e culturale dopo i primi decenni del Novecento, venne nuovamente ignorato. La morte improvvisa di Nicola Spedalieri fece nascere la diceria che il decesso fosse avvenuto per avvelenamento [3].